Vittoriosa la class action promossa dalle associazioni, accolto il ricorso presentato da oltre un centinaio tra persone straniere e datori di lavoro. Il Tribunale: violati i diritti di chi ha chiesto di lavorare in regola.
La mancata conclusione dei procedimenti di emersione entro il termine di 180 giorni non può essere giustificabile. I diritti e gli interessi dei ricorrenti sono stati violati. È quanto ha stabilito il Tribunale Amministrativo Regionale della Lombardia con la sentenza n. 2949 del 5 dicembre 2023 con cui ha accolto il ricorso presentato in una class action pubblica promossa da Coalizione Italiana Libertà e Diritti Civili (Cild), Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI), Oxfam Italia Onlus, Spazi Circolari e Associazione Naga - Organizzazione di Volontariato per l’Assistenza Socio-Sanitaria e per i Diritti di Cittadini Stranieri (oltre che di 9 ricorrenti persone fisiche e con l’intervento di circa altri 100 ulteriori soggetti tra cui sia persone straniere che datori di lavoro).
L’azione di class action pubblica era stata presentata per la condanna delle amministrazioni resistenti al rispetto dei tempi di definizione dei procedimenti di regolarizzazione. Il TAR ha condannato le amministrazioni a concludere l'esame delle richieste di regolarizzazione entro 90 giorni, ponendo così rimedio alla denunciata situazione di generalizzato mancato rispetto del termine di 180 giorni (limite temporale individuato dal Consiglio di Stato, sentenza n. 3578/2022), per la conclusione del procedimento.
Il Tar ha ritenuto grave il ritardo oggettivo e acclarato in cui è incorsa la Prefettura di Milano in relazione al lungo tempo trascorso non solo dalla data di presentazione della domanda di emersione (entro agosto 2020), ma anche dalla stessa scadenza del termine finale, individuato in 180 giorni, previsto per la conclusione delle pratiche. Questi tempi lunghi rappresentano un grave e generalizzato inadempimento della Pubblica Amministrazione che costringe migliaia di persone straniere all’invisibilità se si considera che chi è in possesso della solo ricevuta della domanda di regolarizzazione o di rilascio del primo permesso di soggiorno non può stipulare un altro contratto di lavoro, aprire un conto corrente, effettuare l’iscrizione anagrafica, lasciare il territorio italiano per far visita alle proprie famiglie.
“La pronuncia del Tar Lombardia è di fondamentale importanza e accoglie in pieno quella che è la denuncia delle organizzazioni e le persone fisiche che avevano promosso la class action pubblica, cioè che le persone e i loro datori di lavoro non possono essere lasciati in un vero e proprio limbo giuridico per tempi così lunghi. Ci auguriamo ora che la Prefettura di Milano si uniformi alla pronuncia del Tribunale Amministrativo e ponga rimedio alla situazione creata e che, lo stesso, facciano le molte altre Prefetture inadempienti”. Lo scrivono le organizzazioni promotrici del ricorso.
La regolarizzazione era stata disposta nel maggio del 2020 dal Governo Conte II per regolarizzare le persone straniere impiegate in agricoltura e nel settore domestico. Molte richieste, ad oltre 3 anni dall’entrata in vigore dell’art. 103 D.L. n. 34/2020, ancora oggi non hanno ricevuto risposta. Per questo è stata promossa una class action pubblica verso la Prefettura di Milano, e un’altra verso quella di Roma con ulteriori organizzazioni, per la quale è fissata l’udienza al Consiglio di Stato per il prossimo 7 marzo 2024. Contro la Questura di Roma, invece, Arci Roma, ASGI, Baobab Experience, CILD, Cgil di Roma e del Lazio, Inca-Cgil Lazio, Nonna Roma, Oxfam, Progetto Diritti e Spazi Circolari, in collaborazione con la Campagna Ero Straniero hanno presentato una class action per il ritardo nell’emissione dei permessi di soggiorno. Analogo ricorso sta per essere presentato contro la Questura di Napoli.
I gravissimi ritardi del Ministero dell’interno (prefetture e questure) nel rilasciare alle persone straniere documenti imprescindibili per il loro vivere quotidiano provocano gravissimi danni, quali la perdita del lavoro, la mancata iscrizione al Servizio sanitario, l’impossibilità di esercitare i diritti sociali collegati alla titolarità del permesso. Ritardi che non si riscontrano, a questo livello, per i cittadini e le cittadine italiani/e, collocando sempre più spesso le persone straniere in una condizione di marginalità sociale, che poi diventa “materiale” propagandistico politico.