I (corretti) criteri per la valutazione dell’esposizione a radiazioni ionizzanti: una recente sentenza del Tribunale di Livorno.
Il commento di Marco Bocci, dell'Inca Nazionale.
Nel riconoscimento e nella qualificazione di una patologia come malattia professionale, gioca spesso un ruolo fondamentale l’utilizzo di quei sistemi medico-legali di “misurazione” dell’esposizione a rischio: succede pertanto, a volte, che, correttamente inquadrata una mansione lavorativa tra quelle che possono determinare l’insorgenza di una specifica malattia professionale, il riconoscimento non avvenga perché la quantificazione dell’esposizione non risulta sufficiente a costituire la genesi della tecnopatia.
Risulta quindi di fondamentale importanza andare a verificare i criteri valutativi utilizzati dall’Inail, per accertarsi che siano stati adeguatamente utilizzati nell’accertamento di diritti a volte fondamentali.
Un caso esemplificativo in tal senso è quello recentemente trattato dal Tribunale di Livorno (con una sentenza emessa il 19 gennaio 2021), dove, con il patrocinio dell’Avvocato Leone Costanza, legale del Patronato Inca Cgil di Livorno, si discuteva della sussistenza di una tecnopatia gravissima (dagli esiti, purtroppo, mortali) su un medico chirurgo ortopedico, che aveva contratto un tumore cerebrale.
Il professionista, che aveva lavorato dal 1978 al 2016 presso due Istituti Ospedalieri di Livorno, era stato esposto per anni a radiazioni ionizzanti, utilizzate per la diagnostica di diverse patologie. Nel 2016 gli veniva accertato un glioblastoma multiforme al cervello che, regolarmente denunciato come malattia professionale, lo conduceva purtroppo alla morte nel 2018; a seguito del mancato riconoscimento della tecnopatia da parte dell’Inail, la vedova ricorreva in giudizio per vedersi accertati i propri diritti.
Nella trattazione della causa, un ruolo fondamentale è stato svolto dalla valutazione della metodologia utilizzata dai medici dell’Inail, in fase di richiesta amministrativa, per quantificare l’esposizione al rischio di esposizione alle radiazioni ionizzanti: era stato infatti utilizzato il cosiddetto “Calcolo della probabilità di causa (PC)”, una metodologia che, utilizzata da vari anni dall’Istituto, consente di esprimere la probabilità che un determinato caso sia stato determinato dalle radiazioni ionizzanti, rispetto a tutte le altre cause.
Ma è stato proprio nell’utilizzo di questo metodo che il Consulente Tecnico d’Ufficio (CTU) ha avuto da ridire, in quanto il profilo di esposizione annuale alle radiazioni per la testa (ricordiamo che il lavoratore aveva contratto un tumore cerebrale) è stato delineato utilizzando i valori di esposizione agli arti superiori: ed è proprio sulla scorta di questo dato tecnico che era stato espresso il parere negativo sul nesso di causa tra patologia denunciata e attività lavorativa svolta.
Sul punto, può essere utile sentire il parere del Dott. Fabio Manca, consulente medico-legale dell’Inca Nazionale: ”Appare importante rilevare che la Consulenza Tecnica d’Ufficio, partendo dai diversi orientamenti e criteri internazionali di applicazione della PC (cfr DM 10.06.2014 LISTA I GRUPPO 6), rappresenta come sia impossibile acquisire un dato definitivo delle dosi a corpo intero, portando a proprio sostegno una valutazione che rileva valori più realistici e specifici del caso in specie rilevati a livello del cristallino, organo più vicino alla sede della patologia, causa del decesso. Va contestato pertanto il parere espresso dai sanitari Inail, anche alla luce di esperienze medico-legali di casi analoghi in realtà diverse da quella italiana: in altre parti del mondo (Giappone, Stati Uniti, Inghilterra), infatti, le metodologie applicate sono di derivazione normativa, o frutto di un “accordo sindacale”. Non così in Italia, dove l’Inail utilizza una valutazione dell’esposizione che è di diretta derivazione dell’Istituto stesso (CONTARP)”.
E’ stato a seguito delle valutazioni medico-legali sopra riportate che il giudice di primo grado del Tribunale di Livorno ha pronunciato una sentenza di accoglimento delle istanze presentate dalla ricorrente, la moglie del tecnopatico deceduto, riconoscendole, quale conseguenza della malattia professionale accertata, la rendita ai superstiti, l’assegno funerario e i ratei di rendita del marito, cui era stata riscontrata una percentuale di postumi permanenti del 90% (dal momento della domanda amministrativa a fine 2017) e del 100% (da fine 2017 al momento del decesso).
“Il caso trattato dal Tribunale di Livorno – sostiene Silvino Candeloro, del collegio di Presidenza di Inca Nazionale- è esemplificativo di quanto possa risultare complesso l’accertamento dell’origine professionale di una patologia: a volte, infatti, non basta ricostruire le mansioni del lavoratore, ma anche valutare i metodi che sono stati utilizzati per escludere il nesso di causa”. “Nel caso trattato dal nostro consulente legale, Avv. Leone Costanza – aggiunge -, è stato accertato che il criterio medico legale utilizzato dall’Inail per la quantificazione del rischio (metodo, peraltro, “autoreferenziale”) era stato adottato nei confronti di distretti anatomici che non erano quelli interessati dalla patologia.”