Sono passati più di venti anni dalla emanazione del D. lgs. 38/2000, un decreto che ha completamente stravolto il metodo di valutazione del danno da lavoro e che, ancora oggi, rivela ambiti di applicazione che, seppur esplorati dalla giurisprudenza di legittimità e di merito, sono ancora oggetto di profonda discussione, come dimostra la recente sentenza della Corte costituzionale n. 63/2021.

Nello specifico, giova rilevare che con l’emanazione di tale decreto nel luglio del 2000 veniva realizzata una sorta di “rivoluzione copernicana”(così venne definita da alcuni giuristi all’epoca) nei criteri di valutazione del danno da lavoro: si è passati infatti da una visione tutta incentrata sulla diminuzione della capacità lavorativa generica ad una accezione che prevedeva come criterio valutativo del danno quello della quantificazione del “danno biologico”, vale a dire quello parametrato sull’effettiva riduzione della capacità psico-fisica dell’individuo,  disancorato pertanto da qualsiasi valutazione della capacità produttiva (economicamente valutabile) del lavoratore.

A ben vedere, nell’ambito del danno da lavoro, è con il D.Lgs. 38/2000 che si è pienamente realizzato il principio, costituzionalmente garantito dagli artt. 3 e 38 della nostra Costituzione, vale a dire la realizzazione di un pieno diritto alla salute che sia uguale per tutti i cittadini. Ciò nonostante, come anticipato in premessa, ampi sono rimasti ancora i margini nella discussione di questo testo che, fatalmente, essendo testo “di transizione” non poteva non portarsi dietro dei necessari disallineamenti con la normativa precedente.

Anche recentemente, è stata emanata una importante sentenza della Corte Costituzionale (C. Cost. n. 63/2021) che ha modificato i criteri valutativi delle patologie “preesistenze”, qualora insorga una nuova malattia professionale o si incorra in un infortunio sul lavoro, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’articolo 13, comma 6, secondo periodo, del D.Lgs. 38/2000 che lo prevedeva.

La questione di legittimità costituzionale era stata sollevata esaminando il caso relativo di un lavoratore, titolare di una rendita Inail per una malattia professionale denunciata prima del D.Lgs. 38/2000, che aveva successivamente contratto una nuova tecnopatia (asbestosi), ricadente, questa sì, sul nuovo regime, e insistente sullo stesso organo bersaglio.

Si trattava quindi di individuare lo strumento attraverso il quale poter correttamente valutare, alla luce della disciplina vigente, i due danni, considerando che entrambi erano riconducibili al lavoro, che insistevano sullo stesso organo, ma che ricadevano su due regimi completamente differenti. La questione, certamente di natura molto tecnica e che ci riserviamo di trattare più compiutamente (anche grazie al prezioso intervento dei consulenti legali dell’Inca Nazionale), può essere riassunta in questi termini.

L’art. 13, comma 6, secondo periodo, del D. Lgs. 38/2000, su cui è stata sollevata l’eccezione di legittimità costituzionale, è, come ha ricordato la stessa Corte, il testo che disciplina appunto il passaggio da un sistema assicurativo incentrato sulla capacità lavorativa generica (normato dal D.P.R. 1124/1965) a un nuovo paradigma, basato, secondo principi di natura civilistica, sul concetto di “danno biologico” (introdotto con il D.lgs. 38/2000). Il primo periodo del comma 6 dell’art. 13 di tale decreto, stabilisce che, qualora un lavoratore, colpito da infortunio sul lavoro o da una malattia professionale, abbia una preesistenza extralavorativa (una patologia fisica o psichica non riconducibile al lavoro), il danno da infortunio o da malattia professionale deve essere rapportato non all’indennità psicofisica completa, ma a quella ridotta per effetto delle preesistenti menomazioni. In sostanza, se un lavoratore ha una preesistenza extralavorativa (un danno alla gamba derivante da un infortunio domestico) e subisce un infortunio lavorativo allo stesso organo o distretto anatomico (seguendo l’esempio riportato, possiamo ipotizzare una caduta da una impalcatura durante l’orario di lavoro, che cagiona un danno a quella stessa gamba) il secondo danno deve essere quantificato prendendo in considerazione anche il primo, attraverso una formula matematica che viene definita “Formula Gabrielli”.

Il secondo periodo dello stesso comma 6, quello oggetto della questione di legittimità costituzionale, sembra invece dichiarare qualcosa di diverso, nel  caso in cui le  due patologie fossero entrambi di natura lavorativa e ricadessero l’uno nel vecchio regime, antecedente al 2000, e l’altro nel nuovo. Detta norma afferma che “quando per le conseguenze degli infortuni o delle malattie professionali verificatesi o denunciate prima della data di entrata in vigore del decreto ministeriale di cui al comma 3, l’assicurato percepisca una rendita o sia stato liquidato in capitale ai sensi del Testo Unico, il grado di menomazione conseguente al nuovo infortunio o alla nuova malattia professionale viene valutato senza tener conto delle preesistenze”. Il successivo periodo stabilisce poi che: “In tale caso, l’assicurato continuerà a percepire l’eventuale rendita corrisposta in conseguenza di infortuni o malattie professionali verificatesi o denunciate prima della data sopraindicata”.

In effetti, anche da una lettura non approfondita delle disposizioni salta subito all’occhio il diverso sistema valutativo utilizzato nel primo periodo del comma 6 dell’art 13 del D.lgs 38, e quello indicato nel secondo periodo, soprattutto sui criteri di quantificazione del nuovo danno: se le preesistenze fossero extralavorative vengono considerate, mentre se fossero di natura lavorative (e si sia titolare per le stesse di una rendita) non bisognerebbe tenerne conto. Secondo la Consulta, tali disposizioni si pongono in aperto contrasto con l’art. 3 e l’art.38 della nostra Costituzione, in quanto creerebbe delle ingiustificate (e incostituzionali) differenze di trattamento tra il caso di un lavoratore con preesistenti patologie lavorative ed un altro le cui preesistenze sono extralavorative.

di Marco Bocci, Inca nazionale