Accogliendo il ricorso patrocinato dai legali di Inca, il Tribunale di Macerata riconosce il diritto all’Ape sociale di un lavoratore, rimasto disoccupato a seguito di un licenziamento collettivo per cessazione dell’attività, condannando l’Inps ad accogliere la domanda di pensionamento anticipato.
di Lisa Bartoli
Il datore di lavoro licenzia tutti i dipendenti per cessazione dell’attività, ma per l’Inps non è un licenziamento collettivo e respinge tutti i tentativi di un lavoratore sessantaquattrenne di accedere al pensionamento anticipato, ricorrendo all’Ape sociale. C’è voluta una sentenza (n. 125/2020) del Tribunale civile di Macerata, (che fa seguito alle sentenze del Tribunale di Rovigo -n. 245/2019 e di Verona n. 339/2020), patrocinata dall’avvocato Bruno Pettinari, consulente legale di Inca , del 3 maggio scorso, per mettere fine a questa triste storia, con la condanna dell’Inps a riconoscere il diritto all’Ape sociale, nonostante fosse chiaro sin dall’inizio il possesso dei requisiti richiesti dalla normativa vigente: era stato licenziato il 28 febbraio 2014, insieme agli altri dipendenti; era residente in Italia, aveva compiuto 63 anni il 3 settembre 2019; era disoccupato dal 3 marzo 2014 e non percepiva redditi; era iscritto nelle liste disoccupati; aveva maturato 35 anni di contributi, avrebbe maturato il diritto alla pensione di vecchiaia il primo gennaio 2024.
Ciononostante, per ben 4 volte, l’Inps ha respinto ogni richiesta: Il 4 febbraio 2019 il lavoratore chiede la verifica del requisito per l’accesso all’anticipo pensionistico Ape sociale; due mesi dopo, il 29 aprile, respinge la domanda perché “la motivazione della cessazione dell’attività alle dipendenze precedente alla percezione della mobilità non rientra tra quelle indicate dal DPCM 88/2017; con le stesse argomentazioni il 26 giugno respinge anche l’istanza di riesame inviata il 16 maggio; quindi, il 16 luglio l’Inps insiste respingendo la domanda di Ape sociale perché il lavoratore non aveva la certificazione del diritto. Lo stesso esito negativo ha il ricorso amministrativo, proposto il 9 agosto, nel quale il lavoratore allega la dichiarazione del datore di lavoro che attestava di aver “proceduto al licenziamento collettivo di tutta la forza lavoro il 28 febbraio 2014 per cessazione dell’attività di fabbricazione di elettrodomestici”.
Soltanto la tenacia degli operatori e dei legali di Inca di Macerata ha fatto sì che fosse ristabilito il diritto; “c’è da auspicarsi che l’Inps non voglia ricorrere contro questa sentenza – commentano all’Inca -, ma colga l’occasione per cambiare direzione, troppo spesso tesa a ricorrere in giudizio, anche quando l’evidenza dei fatti, come in questo caso, suggerirebbe di evitarlo per non far ricadere le conseguenze di questa scelta su chi rivendica la corretta interpretazione delle norme previdenziali”.
Secondo Bruno Pettinari, consulente legale di Inca, è incomprensibile il comportamento dell’Inps in quanto la normativa è chiara e non lascia spazio all’interpretazione. “La stessa circolare dell’Inps n. 34/2018, infatti – spiega -, prevede il diritto all’Ape sociale anche per tutti coloro che sono stati assunti con contratti a tempo determinato; pertanto non ha senso, limitare l’esercizio del diritto per i lavoratori con contratto a tempo indeterminato”. “Forse – aggiunge l’avvocato - l’atteggiamento dell’Inps è frutto della logica del risparmio. Non tutti sono disponibili ad affrontare un contenzioso che potrebbe comportare dei costi e, persino, possibili condanne alle spese legali”. In termini di macronumeri – conclude - è conveniente per l’Inps respingere le domande rimandando tutto al contenzioso giudiziario. Vi è da aggiungere che il meccanismo della decadenza, di cui all’art. 47 dpr n. 639/70, non permette il formarsi di una consolidata giurisprudenza a cui poter far riferimento e, quindi, ‘favorire’ la rinuncia a proporre controversie.