Ancora una volta la Cassazione ribadisce la prevalenza della responsabilità del datore di lavoro di mettere in pratica tutte le misure idonee a tutela dell’incolumità dei propri dipendenti rispetto agli interessi aziendali, condannando Poste italiane a risarcire una lavoratrice che, a seguito di una rapina, ha riportato danni seri alla salute.
Con la sentenza n. 16378, depositata il 6 giugno scorso, infatti, la Cassazione ribadisce che “…la responsabilità di Poste è stata fondata sulla inidoneità delle concrete misure adottate, tenuto conto delle condizioni di luogo, a ostacolare il verificarsi di rapine risultando i dispositivi di sicurezza orientati piuttosto alla tutela del patrimonio aziendale anziché alla effettiva tutela della incolumità dei dipendenti”. Nel caso specifico, la Cassazione imputa a Poste Italiane la responsabilità di non aver considerato che l’ubicazione dell’ufficio postate, posto sotto i portici di un condominio, in una zona periferica della città e quindi non visibile dalla strada, lasciava aperta la possibilità di ingresso libero a chicchessia nei locali dell’ufficio, senza filtro di sicurezza, rendendo altamente probabile il verificarsi di rapine, peraltro – sottolinea il verdetto - all’epoca frequenti.
Secondo l’Alta Corte “le misure adottate, quali vetri antisfondamento, sensori di allarme, telecamere per la visione degli accessi collegate a videoregistratori, dispensatori di denaro a tempo e pulsante di allarme antirapina erano per lo più idonee a tutelare il patrimonio della società ma non anche funzionali a garantire la sicurezza dei dipendenti”.
“In altre parole - spiega Marco Bocci, dell’Inca nazionale - la funzionalità dei sistemi antirapina deve essere parametrata primariamente alla tutela del lavoratore, piuttosto che agli interessi economici del datore di lavoro”. Principio non completamente nuovo, ampiamente oggetto di esame in altre pronunce emesse su altri casi analoghi, a riprova di come l’esposizione al rischio rapina sia assai diffuso tra i lavoratori postali, che in alcuni casi hanno subito postumi permanenti, fisici ma anche psichici.
Sulla stessa lunghezza d’onda, alcuni mesi fa, la Cassazione, con un’altra pronuncia (n. 5255\2021) si era espressa in tal senso: in quel caso, il lavoratore, malmenato durante una rapina, aveva chiesto il risarcimento del danno a Poste Italiane. Dopo aver analizzato le circostanze di fatto sulla cui base si erano pronunciate già le corti di merito l’Alta Corte ha affermato che: “…le disposizioni della Carta costituzionale hanno consacrato il definitivo ripudio dell’ideale produttivistico quale unico criterio cui improntare l’agire privato, in considerazione del fatto che l’attività produttiva, anch’essa oggetto di tutela costituzionale…è subordinata…alla utilità sociale che va intesa come realizzazione di un pieno e libero sviluppo della persona umana e dei connessi valori di sicurezza, di libertà e dignità”. Affermazioni importanti che sottolineano la predominanza della tutela del lavoratore rispetto agli interessi aziendali, per la quale è assolutamente imprescindibile l’obbligo di Poste Italiane di predisporre misure idonee a ridurre il rischio rapina non limitandosi al generico rispetto delle normative sulla sicurezza, che non riducono i pericoli cui sono esposti i lavoratori nello svolgimento delle loro attività.
Si tratta di due pronunce che non nascono dal nulla: negli anni infatti si è formata una corposa giurisprudenza di legittimità (tra tutte, Cass. 18626\2013; Cass. 22710\2015; Cassazione n. 10145\2017), tesa a verificare da un lato la presenza o meno negli uffici postali di “sistemi antirapina” e dall’altro ad affermare una netta distinzione tra il sistema di sorveglianza, come strumento idoneo a proteggere gli interessi economici della società datrice di lavoro e il sistema di protezione necessario a garantire la sicurezza sul lavoro dei dipendenti.
Problematiche che fanno emergere come i danni alla salute subiti dal personale postale durante una rapina possono essere determinati non soltanto dalla condotta penalmente rilevante degli autori del disegno criminoso, ma a volte (e spesso) anche dalla mancata predisposizione di misure adeguate, volte a garantire l’incolumità dei lavoratori esposti, attribuendo al datore di lavoro responsabilità ben precise, che possono aver aumentato l’esposizione al rischio rapina, venendo meno all’obbligo di legge sancito dall’art. 2087 del codice civile di assicurare al personale tutti i dispositivi di protezione.
Tutte le pronunce emesse su questa problematica partono da uno stesso presupposto: vale a dire l’art. 2087 del codice civile, che impone al datore di lavoro l’obbligo di garantire con adeguati mezzi la tutela dell’integrità psicofisica dei lavoratori. Nel caso di Poste Italiane, tale principio si traduce nel predisporre i locali di tutti i mezzi necessari per ridurre al minimo l’esposizione a quel “rischio rapina”, che subiscono i lavoratori nell’esercizio della loro attività, considerando la costante movimentazione di denaro.
Già nel 2016, il concetto era stato ribadito con la sentenza della Corte di Cassazione n. 3424: il caso era relativo ad un dipendente di un piccolo ufficio postale che, in ben due occasioni, nel 1995 e nel 1998, aveva subito una rapina a mano armata da parte di due malviventi, a seguito della quale era derivata una malattia psichica di natura ansioso-depressiva. Nella pronuncia, l’orientamento dell’Alta Corte è fin troppo chiaro: anche se l’applicazione della normativa antinfortunistica non può impedire il verificarsi di episodi criminosi a danno del dipendente, comunque “è dovere del datore di lavoro predisporre misure che risultino “idonee, secondo criteri di comune esperienza, a svolgere almeno una funzione dissuasiva e, quindi, preventiva e protettiva”.