La legge n. 214 del 22 dicembre 2011, cosiddetta “Fornero”, ha modificato profondamente il sistema pensionistico italiano. Un sistema già gravato da contraddizioni ed iniquità, che la Riforma Dini del 1995, con il passaggio dal retributivo al contributivo, non aveva sanato per effetto della lunga fase transitoria prevista. Anzi, la successiva stratificazione normativa aveva accentuato alcuni caratteri di complessità e introdotto elementi (con l’allora Ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi) come quello dell’aggancio automatico all’aspettativa di vita con l’effetto della doppia penalizzazione sull’età e sui coefficienti di trasformazione. Il sistema post-Fornero risulta estremamente rigido e moltiplicatore di diseguaglianze, punitivo verso le donne e, soprattutto, sganciato dalle dinamiche reali del mercato del lavoro, che è segnato da precarietà, part-time involontario, lavoro povero, disoccupazione anche in età avanzata.

La corsa all’inasprimento dei requisiti anagrafici e contributivi è stata in parte frenata anche per effetto dell’iniziativa sindacale. Le salvaguardie per i cosiddetti “esodati” hanno consentito l’accesso alla pensione con i precedenti criteri a decine di migliaia di lavoratori; così come l’apertura della vertenza unitaria con i Governi, che si sono succeduti, ha prodotto interventi significativi sulle aspettative di vita, il lavoro usurante e gravoso, sui lavoratori precoci e il lavoro di cura. Alcune di queste misure hanno carattere sperimentale, quindi, prefigurano un assetto non strutturale ma definito nel tempo.

Infine, con il decreto Legge n. 4 del 2019 si è introdotta, per tre anni, una possibilità di pensionamento anticipato (cosiddetto ”Quota 100”), ora riconfermato con la legge di Bilancio 2020, insieme alla proroga per l’annualità in corso sia dell’Ape Sociale che della cosiddetta “opzione donna”.

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