Nel riconoscimento dei casi Covid come derivanti da occasione di lavoro (infortunio) può accadere spesso che l’Inail rigetti la domanda di tutela, e vada a richiedere al lavoratore stesso prova di una “catena di contagio” assolutamente inutile, stante l’evidenza epidemiologica e la valutazione dei fatti.

È quanto accaduto ad un lavoratore di una nota compagnia di crociera che è dovuto ricorrere alla consulenza amministrativa e medico-legale del Patronato Inca Cgil, in quanto l’Inail in prima battuta gli aveva respinto il riconoscimento del contagio come infortunio sul lavoro nonostante avesse passato tutto il periodo di incubazione del virus stando a bordo e impegnato nella profilassi prescritta dall’azienda.

Il caso risale a settembre 2020: prima di effettuare l’imbarco sulla nave da crociera sulla quale lavorava come amministrativo, il lavoratore (come tutti gli altri che si sarebbero dovuti imbarcare) veniva fatto alloggiare in un albergo vicino al punto di imbarco per 4 giorni, al termine dei quali è stato sottoposto ai tamponi che accertavano l’esito negativo al Covid per tutto l’equipaggio. Tale procedura, prevista dalla profilassi anti-Covid dell’Azienda, avrebbe dovuto garantire la quasi certezza che il personale imbarcato non fosse affetto dal Coronavirus.

Purtroppo, però, dopo quasi una settimana dopo l’imbarco, venivano eseguiti nuovamente i tamponi a tutto l’equipaggio, e veniva riscontrata la positività al virus del lavoratore.

Da quanto sopra sinteticamente riportato, sembrava chiara l’evidenza che l’infezione fosse avvenuta o in costanza di rapporto di lavoro (a seguito pertanto dell’imbarco, avvenuto ai primi di ottobre) o in quelle attività predisposte dal datore di lavoro per evitare il contagio a bordo (la permanenza in albergo vicino al porto e il successivo tampone). Il lavoratore, infatti, non aveva avuto modo, al di fuori dei periodi sopra riportati, di avere rapporti interpersonali che potessero aver veicolato l’agente patogeno. Ciò veniva ulteriormente confermato anche dalla circostanza che, per esempio, i familiari più stretti del lavoratore, successivamente sottoposti a tampone, fossero risultati tutti negativi.

Ma ciò, evidentemente, non è bastato all’Inail, che respingeva la domanda di tutela senza indicare, nel provvedimento di rigetto, alcuna motivazione, utile ad un eventuale ricorso amministrativo. Solo grazie ad una successiva richiesta di accesso agli atti, il Patronato Inca, su mandato dell’assistito, ha potuto appurare che l’area medica dell’Inail aveva respinto la richiesta perché il lavoratore non era stato in grado di dimostrare di aver avuto contatti con personale di bordo o passeggeri contagiati.

È stato quindi necessario un ricorso amministrativo per accertare che l’infezione da Covid 19 doveva essere necessariamente stata contratta in occasione di lavoro (durante la permanenza a bordo od in albergo) visto che, nei giorni antecedenti il tampone, l’assistito non aveva fatto ritorno a casa, né aveva avuto alcun tipo di contatto extralavorativo.

“Il caso in oggetto – sostiene Sara Palazzoli del Collegio di Presidenza Inca – è l’ennesima dimostrazione di come, a volte, sia necessario l’intervento del Patronato, anche quando il caso risulta di per sé molto evidente. Soprattutto nei casi di riconoscimento di infezione da Covid-19 come infortunio sul lavoro, l’Inca si è da subito impegnata per far emergere eventi che altrimenti sarebbero stati trattati come malattia comune, o per garantire, in casi come questo, un riconoscimento negato in prima battuta.”

Di Marco Bocci, Inca Cgil Nazionale