La Cassazione riconosce il diritto alla rendita Inail in favore dei familiari di un lavoratore infortunatosi nel 1991 e deceduto a causa di una epatopatia da Hcv, diagnosticata nel 2008, contratta a seguito di una trasfusione di sangue.

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Di Marco Bocci, Area danni da lavoro - Inca nazionale

Il 21 giugno di quest’anno è stata pubblicata una sentenza della Cassazione (di riforma della Corte d’Appello di Campobasso) che rimedia ad un evidente errore di individuazione del diritto, oggetto del giudizio da parte dei giudici di merito, la cui lettura ci permette di verificare come spesso si debba attendere un giudizio di Cassazione per individuare l’interesse giuridicamente protetto in relazione ad un danno da lavoro.

Il caso esaminato dall’Alta Corte (Cass. Civ. n. 17605/2021) investe un lavoratore che, dopo aver subito un infortunio nel lontano 1991, subisce un intervento chirurgico, accompagnato da una necessaria trasfusione di sangue, a seguito della quale scopre soltanto nel 2008 di aver contratto una grave forma di epatopatia da Hcv, che lo avrebbe poi portato al decesso nel 2011. 

Poiché l’infezione e quindi la morte del lavoratore, erano collegate all’infortunio subìto nel 1991, la vedova del lavoratore aveva presentato all’INAIL istanza di rendita ai superstiti ma, dopo un primo riconoscimento in fase giudiziaria, la Corte di Appello di Campobasso aveva ribaltato la pronuncia, affermando che l’epatopatia era stata accertata oltre il termine decennale per avanzare pretese, fissato dall’art. 83 del Testo Unico sulla sicurezza n. 1124/65 e che nell’infortunio del 1991 non c’era stata esposizione a tale rischio patogeno. 

Partendo da un presupposto sbagliato, la Corte territoriale era pertanto arrivata alla conclusione che il diritto della moglie non fosse azionabile, in quanto prescritto, poiché esercitato oltre i termini di legge, facendo prevalere il concetto, secondo il quale l’epatopatia, accertata nel 2008  e causa della morte nel 2011, avrebbe potuto determinare l’insorgenza del diritto alla rendita solo se accertata entro i 10 anni dall’infortunio”, termine indicato dal Testo Unico entro il quale si devono ritenere stabilizzati i postumi dell’infortunio.

In realtà, nel caso esaminato, è evidente come il riconoscimento del diritto alla rendita non possa prescindere dalla data in cui la vittima è venuta a conoscenza della malattia. Circostanza che la Cassazione ha messo ben in evidenza riportando sul giusto binario l’interpretazione applicativa della normativa, richiamando l’articolo 85 del Testo Unico 1124/1095, laddove stabilisce il diritto degli eredi alla rendita nel caso di morte del familiare collegata a infortunio o malattia professionale, facendo decorrere il termine dei dieci anni, a partire dalla data in cui è stata diagnostica la patologia che ha causato il decesso. Quindi, secondo questa impostazione, la Corte di merito avrebbe dovuto accertare la sussistenza del nesso causale tra l’infortunio del 1991 e la morte, e l’unico termine da rispettare (e in questo caso rispettato) era quello decorrente dal momento in cui il lavoratore infortunato è venuto a conoscenza della diagnosi, che ha provocato la morte. 

Avverso questa (incomprensibile) decisione della Corte territoriale si è pertanto pronunciata la Corte di Cassazione, la quale ha correttamente statuito che la rendita superstiti non è condizionata affatto dai termini fissati dagli artt. 83 e 137 del T.U. per la revisione e l’adeguamento della rendita diretta eventualmente erogata in vita al “de cuius”, essendo tale prestazione autonoma e spettante a titolo proprio ai familiari; sicché essa, afferma l’Alta Corte, “prescinde sia dalla circostanza che per quello stesso evento fosse già stata costituita la rendita in favore degli eredi del lavoratore deceduto, sia dal fatto che tale rendita fosse adeguata in relazione all’aggravamento che ha cagionato la morte”.

Benché non attinente alla prestazione (rendita ai superstiti), fatta valere nel presente giudizio, si impone un’osservazione anche sui termini di revisione per aggravamento della rendita diretta quando, a distanza di molto tempo, intervenga una patologia collegata all’infortunio o alla malattia professionale che ne determini una significativa modificazione.

A questo proposito, c’è una importante sentenza della Corte Cass. 1048/2018, che ha esteso l’applicabilità dei principi fissati dalla pronuncia della Corte Costituzionale n.46/2010, nella quale si afferma che il cosiddetto “principio della stabilizzazione dei postumi” non può precludere la tutela di tutti gli esiti collegati causalmente all’evento che li ha originati, anche dopo la scadenza dei termini revisionali...”. Estensione che può essere condivisa o meno, ma che potrebbe aprire la strada alla possibilità di proporre l’aggravamento di una patologia anche dopo il termine previsto di 10 anni, quando si riesca a dimostrare il nesso tra l’intervenuto aggravamento e l’originaria causa del danno. Ad ogni buon conto, è comunque bene ricordare che, ad oggi, la pronuncia della Cassazione è una sentenza abbastanza isolata, che ha valore di giudicato solo per il caso specifico.